La Chiesa di San Gregorio
Nella Corte del Catapano c’erano varie chiesette, dedicate a S. Demetrio, S. Eustrazio, S. Sofia, S. Basilio, S. Stefano e S. Gregorio. L’unica a non essere abbattuta per costruire la Basilica fu quella di S. Gregorio, edificata sul finire del X secolo. Le tre absidi in vista richiamano la sua bizantinità, che trova comunque conferma nella coeva documentazione. Il primo riferimento è costituito dalla pergamena del marzo 1015 con cui Mele, clericus et abbas, custos et rector ecclesie Sancti Gregorii, donava un’eredità da lui ricevuta al cugino Simeone, comandante di un contingente militare, in cambio della sua protezione.
Verso il 1040 la chiesa divenne proprietà della potente famiglia Adralisto, tanto che nel 1089, parlando di S. Gregorio, l’arcivescovo Elia definiva la chiesa “de Kyri Adralisto”. Nei decenni successivi manteneva questa denominazione, come nel 1136, quando si parla di tale Sifanti venerabilis sacerdotis ecclesie S. Gregorii que de Adralisto dicitur, e ancora nel 1210, dopo di che cominciò a prevalere la denominazione “de Mercatello”.
Sui muri perimetrali vi sono undici iscrizioni funebri che indicano come la chiesa di S. Gregorio fosse amata dalla gente del luogo. Diversi di questi nomi rievocano, infatti, i cognomi baresi più caratteristici, come Melipezza e Meliciacca, oltre al nobile Bisanzio Patrizio e al popolare Giovanni Cacatorta.
La chiesa fu gestita dalla Cattedrale fino al 22 novembre 1308 allorché, dietro suggerimento del re, l’arcivescovo Romualdo Grisone la donava alla Basilica.
La facciata principale aveva tre porte, delle quali le due laterali furono murate nel ‘600 per costruire altari all’interno. Al di sopra di esse vi sono tre ampie monofore con i bordi a grani di rosario, come il portale della vicina S. Marco e le finestre della cattedrale. Più in alto, il finestrone è circondato da piccole mensole con motivi floreali e piccoli animali.
L’interno è a tre navate. Due file di quattro colonne, interrotte da pilastri con semicolonne addossate, dividono la navata centrale dalle due laterali. I capitelli appartengono a varie epoche e sono di diversa dimensione. Il primo a destra, con la base piramidale, può essere fatto risalire al VII-VIII secolo dopo Cristo. Il secondo è il più rovinato. Il terzo, di tipo corinzio (con foglie eleganti), offre dei riscontri con S. Michele di Capua, e quindi vanta anch’esso una notevole antichità. Due ordini sovrapposti di foglie d’acanto caratterizzano l’ultimo capitello. Dal lato sinistro, il primo capitello presenta anch’esso due ordini di foglie d’acanto. Sembra che avrebbe dovuto esserci un terzo ordine, ma fu sostituito da un tassello di marmo. Il secondo capitello contiene (ed è l’unico in tal senso) figure umane. Verso la navata centrale si vede un uomo con dei grappoli d’uva, mentre verso la facciata interna nord si vede il viso di un uomo dalla capigliatura liscia e con riga al centro. Il terzo presenta in modo sobrio delle foglie acuminate. Il quarto ed ultimo capitello ad un ordine inferiore di foglie d’acanto sovrappone delle palmette che richiamano l’arte egizia e trovano delle analogie con alcuni capitelli della cripta di Otranto e di S. Basilio a Troia.
Figure leonine separate da un volto umano caratterizzano, invece, i capitelli delle semicolonne. L’analogia col capitello dell’arcone che in S. Nicola separa la navata dal presbiterio ha suggerito alla Belli d’Elia una presenza della bottega del Maestro della cattedra d’Elia.
All’interno della facciata principale s’è conservato l’affresco di S. Antonio. Mentre un’iscrizione della facciata interna sud ci informa che per qualche tempo la chiesa fu usata come luogo di sepoltura (nel documento del 1308 si parlava già di un cimitero) dai membri della Confraternita di S. Gregorio (popolarmente detta della Passione di nostro Signore a motivo delle statue dei misteri del Venerdì Santo): Confratrum et benefactorum huius edis regalis Ecclesiae annexae.
Tra il XVII e il XVIII secolo la chiesa assunse le forme barocche caratteristiche del tempo. L’abside centrale ospitò l’altare maggiore con cinque nicchie, in cui più tardi si usò conservare le statue dei misteri (altre due erano collocate al di sopra delle nicchie, ai piedi del crocifisso). Sotto un arco separante la navata centrale da quella sinistra era ubicata una nicchia per conservare la statua di S. Nicola (la stessa che oggi è in Basilica). A sinistra dell’entrata principale c’era l’altare di S. Antonio. Continuando nella navata sinistra c’erano gli altari di S. Biagio e S. Vito. Nella navata di destra c’era invece quello del Carmine.
Nel 1928 la chiesa fu liberata degli edifici addossati che la collegavano posteriormente alla Torre delle Milizie, mentre con ulteriori e più radicali restauri nel 1937 l’architetto Schettini la liberava dei suddetti altari, ridando alla chiesa la sua struttura originaria.
Verso il 1040 la chiesa divenne proprietà della potente famiglia Adralisto, tanto che nel 1089, parlando di S. Gregorio, l’arcivescovo Elia definiva la chiesa “de Kyri Adralisto”. Nei decenni successivi manteneva questa denominazione, come nel 1136, quando si parla di tale Sifanti venerabilis sacerdotis ecclesie S. Gregorii que de Adralisto dicitur, e ancora nel 1210, dopo di che cominciò a prevalere la denominazione “de Mercatello”.
Sui muri perimetrali vi sono undici iscrizioni funebri che indicano come la chiesa di S. Gregorio fosse amata dalla gente del luogo. Diversi di questi nomi rievocano, infatti, i cognomi baresi più caratteristici, come Melipezza e Meliciacca, oltre al nobile Bisanzio Patrizio e al popolare Giovanni Cacatorta.
La chiesa fu gestita dalla Cattedrale fino al 22 novembre 1308 allorché, dietro suggerimento del re, l’arcivescovo Romualdo Grisone la donava alla Basilica.
La facciata principale aveva tre porte, delle quali le due laterali furono murate nel ‘600 per costruire altari all’interno. Al di sopra di esse vi sono tre ampie monofore con i bordi a grani di rosario, come il portale della vicina S. Marco e le finestre della cattedrale. Più in alto, il finestrone è circondato da piccole mensole con motivi floreali e piccoli animali.
L’interno è a tre navate. Due file di quattro colonne, interrotte da pilastri con semicolonne addossate, dividono la navata centrale dalle due laterali. I capitelli appartengono a varie epoche e sono di diversa dimensione. Il primo a destra, con la base piramidale, può essere fatto risalire al VII-VIII secolo dopo Cristo. Il secondo è il più rovinato. Il terzo, di tipo corinzio (con foglie eleganti), offre dei riscontri con S. Michele di Capua, e quindi vanta anch’esso una notevole antichità. Due ordini sovrapposti di foglie d’acanto caratterizzano l’ultimo capitello. Dal lato sinistro, il primo capitello presenta anch’esso due ordini di foglie d’acanto. Sembra che avrebbe dovuto esserci un terzo ordine, ma fu sostituito da un tassello di marmo. Il secondo capitello contiene (ed è l’unico in tal senso) figure umane. Verso la navata centrale si vede un uomo con dei grappoli d’uva, mentre verso la facciata interna nord si vede il viso di un uomo dalla capigliatura liscia e con riga al centro. Il terzo presenta in modo sobrio delle foglie acuminate. Il quarto ed ultimo capitello ad un ordine inferiore di foglie d’acanto sovrappone delle palmette che richiamano l’arte egizia e trovano delle analogie con alcuni capitelli della cripta di Otranto e di S. Basilio a Troia.
Figure leonine separate da un volto umano caratterizzano, invece, i capitelli delle semicolonne. L’analogia col capitello dell’arcone che in S. Nicola separa la navata dal presbiterio ha suggerito alla Belli d’Elia una presenza della bottega del Maestro della cattedra d’Elia.
All’interno della facciata principale s’è conservato l’affresco di S. Antonio. Mentre un’iscrizione della facciata interna sud ci informa che per qualche tempo la chiesa fu usata come luogo di sepoltura (nel documento del 1308 si parlava già di un cimitero) dai membri della Confraternita di S. Gregorio (popolarmente detta della Passione di nostro Signore a motivo delle statue dei misteri del Venerdì Santo): Confratrum et benefactorum huius edis regalis Ecclesiae annexae.
Tra il XVII e il XVIII secolo la chiesa assunse le forme barocche caratteristiche del tempo. L’abside centrale ospitò l’altare maggiore con cinque nicchie, in cui più tardi si usò conservare le statue dei misteri (altre due erano collocate al di sopra delle nicchie, ai piedi del crocifisso). Sotto un arco separante la navata centrale da quella sinistra era ubicata una nicchia per conservare la statua di S. Nicola (la stessa che oggi è in Basilica). A sinistra dell’entrata principale c’era l’altare di S. Antonio. Continuando nella navata sinistra c’erano gli altari di S. Biagio e S. Vito. Nella navata di destra c’era invece quello del Carmine.
Nel 1928 la chiesa fu liberata degli edifici addossati che la collegavano posteriormente alla Torre delle Milizie, mentre con ulteriori e più radicali restauri nel 1937 l’architetto Schettini la liberava dei suddetti altari, ridando alla chiesa la sua struttura originaria.