Dalle leggi eversive ai Patti Lateranensi

Grazie alla generosità di Carlo II d’Angiò (+ 1309) la Basilica era divenuta una signorìa feudale, ed anche se nel corso del tempo perdette il feudo di Grumo, il tesorierato-arcipretura di Altamura ed altri possedimenti, restò pur sempre detentrice dei feudi di Rutigliano e Sannicandro, avendo sotto di sé anche il monastero di Ognissanti di Valenzano e le sue pertinenze. Come si sa, con Carlo II d’Angiò la Basilica, pur mantenendo la sua dipendenza dalla Santa Sede, venne ad essere gestita totalmente dal re. Grazie ai privilegi di Bonifacio VIII si instaurò una specia di Legatia apostolica che praticamente esautorava non solo gli arcivescovi baresi, ma persino la Santa Sede, le cui disposizioni erano lettera morta se non ottenevano il Regio exequatur.
Le leggi eversive (della feudalità) promulgate nel 1806 cambiarono radicalmente i rapporti del capitolo nicolaiano con i suoi feudi. Il Priore e i canonici dovettero rinunciare a molte entrate legate alla struttura feudale dei rapporti (come ad es. la bagliva), conservando i censi diretti provenienti dai fondi rustici ed urbani.
Il carattere di palatinità, e quindi il suo stretto legame con la casa regnante, permise alla Basilica di superare anche il difficile scoglio del 1870, allorché le chiese vennero sottoposte ad espropri. Cominciava così un braccio di ferro fra Santa sede ed Arcivescovado barese da una parte, re e governo italiano dall’altra. L’ultimo scontro avvenne nel 1890, quando un breve di Leone XIII cercava di inserire l’arcivescovo di Bari nella vita della Basilica, ed il re Umberto I, a distanza di qualche mese, ribadiva l’esclusiva competenza regia sulla Basilica e l’illegittimità di ogni ingerenza ecclesiastica. In tale contesto, ad evitare cedimenti da parte del Gran Priore Gaetano Bacile (come si vociferava), quest’ultimo fu spinto a dimettersi e nel 1891 il tutto fu sottoposto a sequestro di manoregia e affidato ad una Amministrazione civile delle Basiliche Palatine Pugliesi, alle dipendenze del ministero degli Interni.
Un decreto del 21 aprile 1891 riduceva il personale: il clero da 100 fu ridotto a 48, di cui  20 canonici. Una riduzione che sarebbe continuata nel 1909 scendendo a 36 (di cui 18 canonici) e nel 1918, scendendo ancora a 18 (di cui 12 canonici).
Tutta la questione della Basilica fu inserita dunque in quella più vasta delle chiese palatine pugliesi (Acquaviva, Altamura, Monte Sant’Angelo), il cui criterio amministrativo fu quello di unificare in una massa comune tutte le entrate, devolvendo gli introiti secondo programmi e voci specifiche. La novità fondamentale, che incise poi sulle vicende successive, fu che gran parte delle entrate erano da destinarsi ad opere di utilità pubblica, ed in particolare ad un erigendo ospedale e alla scuola d’Arti e Mestieri Umberto I (che aveva sostituito nel 1891 l’Istituto Putignani). In altri termini, erano destinate all’estinzione molte opere caritative della chiesa, come ad esempio l’ospizio dei pellegrini.
Questa svolta laicista, anche nel senso negativo del termine, fu riprovata da diversi cittadini. Ad esempio, R. de Cesare parlò dei pessimi decreti del 1891 che ridussero il numero di chierici, beneficiati e canonici, e trattarono quelle chiese come roba di conquista. Sulla stessa linea si erano espressi anche l’Imbriani e il De Nicolò, che avrebbero voluto fare rifiorire la devozione e la cultura religiosa. E così furono diffuse delle proposte costruttive tendenti in generale a ridare alla Chiesa la sua autonomia. Fra queste ci fu anche la proposta di Gianturco, confidente del re, che il 10 ottobre 1900 R. De Cesare definiva “idea geniale per le Basiliche palatine”, che prevedeva di devolvere i fondi del santuario a scopi ecclesiastici e precisamente alla creazione di una “specie di Facoltà teologica”[1]. Tra le adesioni a questa idea quella del prof. Carlo Massa, che considerava le riforme del 1891 operate con disprezzo delle leggi del regno e contro ogni principio di equità, a danno delle basiliche palatine pugliesi, dei loro cleri e dei loro patrimoni[2].
Ovviamente non mancarono le repliche violente in cui, capovolgendo la denuncia si “smascherava” il De Cesare come liberale modernista e patriottico, insensibile ai canoni rigorosi della Chiesa. Prova ne era il suo desiderio di sopprimere il gran priorato, a suo avviso istituzione antipatriottica, come aveva dimostrato il Piscicelli fuggendo in sacrestia durante i funerali di Umberto I e soprattutto durante la preghiera della regina. La Facoltà teologica del De Cesare aveva lo scopo di creare un clero ribelle al papa e vicino agli ambienti protestantizzanti. Sarebbe una Università teologico-scismatica o se si vuole una università massonica[3]. 
 
Intanto le condizioni materiali dei canonici peggioravano. Tra l’aprile ed il maggio 1906 il capitolo inviò alcuni di essi al ministro e al comm. Lambarini per esporre la triste situazione in cui versavano i canonici.  Quest’ultimo mostrò di non gradire la presenza del Manzari “per i famosi avvenimenti del 1890” e di Giovanni Rotondo per le proteste per i 4 canonicati concessi nel 1902. Sia questa che le successive suppliche rimasero inascoltate, a parte qualche concessione una tantum di sussidi.
La prima guerra mondiale distrasse alquanto l’attenzione dalla Basilica, ma subito dopo si riprese. Dopo l’ulteriore diminuzione di personale il 4 agosto 1918, a nome di tutti i canonici il Nitti inviò una vigorosa lettera al Re e al ministro prevedendo tempi duri per la Basilica[4]. Venne poi la richiesta dell’Opera Nazionale Combattenti ai sensi del regolamento legislativo del  16 gennaio 1919 di comprare i fondi rustici delle Palatine Pugliesi. In realtà il regolamento in questione parlava di terreni incolti, ma poco a poco la richiesta sembrò essere generalizzata e soprattutto le voci parlavano di prezzi di favore. Tali beni rustici assommavano ad ettari 989, così suddivisi: Sannicandro (481), Rutigliano (393), Bari (69), Modugno, Bitonto e Terlizzi (46)[5].
 
Ormai si stava creando il senso di un vero e proprio smembramento. A meno che non si trattò di una pura coincidenza, la Santa Sede tentò una carta decisamente più prudente che in passato. Visto che il passo di Leone XIII nel 1890, tendente a dare un certo ruolo all’arcivescovo di Bari, aveva suscitato una violenta reazione anticlericale, Benedetto XV cambiava rotta.
Il Decreto Concistoriale del 6 dicembre 1919 De ordine a Capitulo et Clero Basilicae Sancti Nicolai barensis servando affermava tra l’altro: La detta Basilica sarà immediatamente soggetta alla Santa Sede e sarà esente dalla visita e dalla giurisdizione dell’Ordinario locale, per tutto ciò che riguarda l’interno ordinamento per il servizio del culto e per la sua amministrazione temporale. E nel secondo articolo: Il Gran Priore godrà dell’esenzione non solo locale nella sua dimora nell’ambito della Basilica, ma anche personale, come godono i superiori regolari dall’Ordinario diocesano[6].
Questo sganciarsi totale dall’arcivescovo e questa specie di “alto patronato” della Santa Sede diedero un certo respiro al clero della Basilica. Infatti, quando le voci dell’acquisto a basso costo dei fondi rustici da parte dell’Opera Nazionale dei Combattenti divennero insistenti, levarono una vigorosa protesta potendo fare leva su una professione esplicita di fedeltà al re ed allo stato[7].
Il Collegio Centrale Arbitrale in data 1 ottobre 1921 decise il suddetto trasferimento dei beni all’Opera Nazionale. Non comprendendo la forza del decreto, nei 15 giorni successivi non venne alcuna opposizione legale, onde fu riconosciuto esecutivo. Ma ormai, sulla scia del Nitti, il clero aveva cominciato ad elevare coraggiose proteste.
In data 31 ottobre 1921 il gran priore telegrafava al ministro della Giustizia questa vibrata denuncia: Minacciato trasferimento patrimonio R. Basilica San Nicola all’Opera Nazionale Combattenti rappresenterebbe sopraffazione diritti Corona,  tradizioni storiche artistiche Basilica, e danneggerebbe seriamente interessi regionali. Chiedo intervento diretto V. E.  tutela giustizia perché impediscasi trasferimento o valutinsi beni giusto prezzo rispondente attuali oneri. Clero e popolo faranno ancora sentire  V. E. loro voce contro qualsiasi tentativo incolumità patrimonio.
Il trasferimento dei beni però procedette fino a conclusione, per cui il canonico Nitti di Vito inviò una dura protesta al ministro di Grazia, Giustizia e Culti Giulio Rodinò[8]. A sostegno del Nitti, con lo scopo precipuo di creare fondi per il restauro della chiesa, intervenne anche l’architetto Calzecchi.
Sembravano tutte inutili le proteste, quando la svolta politica influì direttamente sulla questione. Il nuovo governo diretto da Benito Mussolini, ai primi del 1923 annullò la precedente assegnazione, restituendo i beni rustici all’Amministrazione Civile delle Basiliche Palatine[9].
Il 19 gennaio del 1924 il re Vittorio Emanuele III era nuovamente in visita alla Basilica, dopo che vi aveva messo piede insieme alla promessa sposa, regina Elena, il 22 ottobre del 1896. Già nella precedente occasione aveva lamentato la presenza di troppi drappi, bandiere e tappeti. Ora, venuto a Bari per la benedizione del Monumento dell’Ossario dei Caduti, poneva nuovamente domande sui restauri.
I suoi auspici e l’insperata soluzione che permetteva di disporre di fondi notevoli fece riprendere i progetti di restauro del tempio di cui si parlava già prima della guerra e che erano stati accantonati a causa della polemica sui fondi rustici. Fu creata una Commissione per i Restauri il cui presidente fu il Calzecchi, trasferito il quale subentrò il canonico Francesco Nitti di Vito, mentre guida tecnica divenne l’architetto Quintino Quagliati. Nel dicembre del 1924 fu presentato un progetto di restauro redatto dall’ing. Luigi Sylos. I lavori, inaugurati il 31 maggio del 1925 procedettero alacremente, nonostante le aspre polemiche di cui la stampa locale e nazionale si fece portavoce. Motivo principale del contendere era l’opportunità o meno di eliminare tante memorie successive all’epoca medioevale. In ogni caso, furono demolite le tante case addossate alla chiesa specialmente in corrispondenza della facciata posteriore, furono abbattute le sopraelevazioni barocche sulle torri campanarie, e furono riaperti i portici (che erano stati chiusi nel XIV secolo per ricavarne all’interno le cappelle gentilizie). I lavori terminarono nel 1934 con lo scioglimento della Commissione per i Restauri.