Il XVI secolo

Ai primi del Cinquecento la Puglia domenicana doveva essere abbastanza fiorente se già nel 1518 si poneva il problema se staccarsi o meno dalla Provincia Regni. Alla fine prevalse la tesi del distacco e si formò la Provincia di S. Tommaso di Puglia. Forse fu proprio in questo contesto che giunse a Bari il Maestro Generale fra Garcia de Loaysa. Per l’occasione le monache di Santa Scolastica, forse colpite dalla fioritura dell’Ordine a Bari, chiesero al maestro generale di poter beneficiare dei privilegi e indulgenze dell’Ordine. Il relativo diploma del Maestro dell’Ordine fu riportato dal Lombardi nella sua Storia di questo monastero[1].
   Dopo la decisione capitolare e la discesa del maestro generale nel meridione e a Bari, la nuova provincia fu ufficialmente approvata con breve pontificio da Leone X nel 1519.
Il tutto avveniva mentre nell’Ordine forti tensioni attraversavano tutti i conventi, fra coloro che parteggiavano per una vita più osservanziale di tipo monastico e coloro che erano attaccati allo spirito originario che vedeva nella predicazione lo scopo prioritario dell’ordine. A queste tensioni interne si aggiungevano quelle esterne legate al territorio, suddiviso per quanto riguarda la provincia di Puglia in cinque nationes (Capitanata, Terra di Bari, Hydruntina, Tarantina e Basilicata). Di conseguenza la vita interna della comunità fu ugualmente attraversata da contrasti e incomprensioni, come si vide nel 1541, quando un’elezione del priore suscitò tutta una serie di dissensi e di denunce al maestro generale. Nel luglio di quell’anno intervenne il procuratore fra Angelo Diaceti, il quale incaricò come visitatore e commissario il padre Antonio Maraffa di Martina Franca di recarsi sul posto e rendersi conto delle eventuali irregolarità. Questi giunto a Bari sembra che riportasse un po’ di ordine, per continuare poi verso Brindisi ove erano sorti problemi analoghi[2].
   Tali problemi, quasi connaturali all’ordine domenicano a motivo della struttura democratica dei suoi meccanismi elettorali, non devono però far pensare ad una crisi di immagine. Infatti, gli elementi a nostra disposizione attestano un interesse sempre maggiore dei laici verso il convento e la sua Chiesa. A comprova si riportano due documenti, uno datato praticamente subito dopo la nascita della nuova provincia, l’altro dieci anni dopo.
Nel 1520 al convento di S. Domenico si presentarono il giudice regio Giacomo de Sabbatis, il notaio apostolico Nicola Maria de Romanello ed altri testimoni di nobili famiglie. Dinanzi a loro tale Francesco di Piacenza mostrò un istrumento del defunto notaio Pietro de Falconibus che attestava che lui percepiva un annuo censo dal sig. Giliberto de Foris di Mola. Ora egli, per il bene della sua anima e per la grande devozione verso la chiesa di S. Domenico di Bari, donava il detto annuo censo alla comunità domenicana: in parte  remissionis  suorum peccatorum pro salute  eius anime provideri et maxime  propter  nimia devoctione quam erga ecclesiam Sancti Dominici Barensis gerit sponte et voluntarie eodem preditto die … in perpetuum donavit. Il documento è interessante anche perché a sottoscriverlo fu tutta la comunità, per cui sappiamo che nel 1520 i frati erano i seguenti: fra Angelo di Minervino (priore), fra Bartolomeo di Bitonto, fra Domenico di Bari, fra Antonio di Modugno, fra Antonio di Altamura, fra Giacomo di Bari, fra Antonio di Castellaneta, fra Giovanni di Gioia, fra Clemente di Lecce e fra Andrea di Bari[3].
Al 1530 risale invece un testamento che prevedeva una sepoltura in S. Domenico con delle clausole davvero singolari. Tale Eustachio de Rossi il 5 gennaio 1530 fece un testamento con un lascito che doveva servire alla costruzione di una cappella nella chiesa dei domenicani. Ai parenti, che ne avrebbero dovuto seguire i lavori, lasciava una rendita a determinate condizioni, esplicitamente riferite nel testamento redatto dal notaio Vito de Tatiis. Ivi ordinò che in detta Chiesa di S. Domenico alla destra parte del’altare maggiore si erigesse un monumento coverto di velluto nero, con croce sopra di seta cermesi, coll’armi aurate e coll’epitafio della Sig.ra Giulia Caracciolo, sua madre, e comandò che i suoi istituiti e sostituiti eredi dovessero vendicare colla giustizia la morte di Pietro Coppa de Rossi suo padre, e se ciò non facessero, chiamava i suoi più prossimi colla stessa condizione vendicativa[4].
 
    Non è dato sapere, allo stato attuale della ricerca, se gli eredi di Eustachio vendicassero la morte del padre, ma si sa che nel 1552 nella cappella maggiore della chiesa di S. Domenico di Bari eressero un monumento sepolcrale alla madre, Giulia Caracciolo[5]. Tutta la famiglia doveva comunque avere un particolare rapporto con i domenicani, se anche una suor Maria de’ Rossi, che fece testamento il 28 settembre del 1529, apparteneva al Terz’Ordine di S. Domenico[6].  Quanto ad Eustachio, è opportuno segnalare alcune considerazioni del Beatillo che presentano aspetti non del tutto chiari. Dopo aver parlato dell’importanza della famiglia De Rossi nella città di Bari tra il XIII ed il XIV secolo e dopo aver rigettato la tesi secondo la quale il capostipite Eustazio de Rossi sarebbe nato a Firenze, riporta questa lapide:  Hoc est sepulcrum viri nobilis quondam Eustasij de Russis de Florentia et haeredum eius, qui obiit anno Domini MCCC.XXXII.[7] Se fosse vera questa datazione data dal Beatillo, dovremmo affermare che nella chiesa di S. Domenico furono sepolti due nobili con lo stesso nome a distanza di oltre 200 anni. In caso contrario dovremmo parlare di una svista del Beatillo e affermare che l’unico Eustachio (o Eustasio) de Russis sepolto in S. Domenico è quello della prima metà del Cinquecento.
Oltre che per le esequie, la chiesa di S. Domenico era una delle preferite per i matrimoni. In S. Domenico, ad esempio, furono stipulati nel 1545 i capitoli matrimoniali per le nozze fra Laura Pappacoda, figlia di Francesco, barone di Massafra, e Giacomo de Agiello di Taranto, primogenito di Nicolantonio de Agiello, barone di Melpignano e Lizzano[8].
Con il denaro di Eustachio de Rossi i frati ripresero i lavori di restauro al convento come si evince da documenti che riportano altri interessanti dettagli su quel lascito. La comunità aveva chiesto l’assenso del procuratore generale dell’ordine, fra Stefano Usodimare (pochi anni dopo eletto maestro generale). Programmando una sua visita ai conventi pugliesi, fra Stefano giunse a Bari il 9 novembre 1550 e si compiacque dei lavori in corso[9].
Nonostante che le cose sul piano finanziario non andassero male, quando l’universitas (Comune) barese decise di abolire il contributo annuale al convento, i frati non esitarono a rivolgersi a Bona Sforza, duchessa di Bari e regina di Polonia. Questa rispose dicendo che avrebbe fatto il possibile per convincere l’universitas a dare ai Domenicani quell’elemosina annuale.[10]
Dopo quanto detto a proposito di cappelle e monumenti nella chiesa di S. Domenico, suscita una certa meraviglia l’immagine che ne esce dalla visita apostolica di mons. Tommaso Orfini, vescovo di Foligno, nel 1568. Al termine di essa infatti, lasciava una descrizione abbastanza negativa, dando una netta impressione di trascuratezza e di abbandono [11].
   Solo quattro anni dopo, a conferma di questo momento negativo della chiesa di S. Domenico, arrivava alla comunità barese una lettera del maestro generale Serafino Cavalli che rimproverava il modo di celebrare la messa di uno dei frati. In particolare il capo dell’ordine sospendeva fra Antonino di Bari perché ometteva le parti secrete della messa per abbreviare i tempi e così piacere ai fedeli laici: brevitatis gratia et ut magis saecularibus placeret.[12] Negli anni immediatamente successivi la situazione non dovette migliorare se nei suoi diari di viaggio fra Serafino Razzi, venuto a Bari in pellegrinaggio a S. Nicola nel 1576, non manca di fare simili rilievi [13].
  Un’ombra sul convento gettò anche la fuga di un frate, sia pure solo suddiacono e quindi non ancora sacerdote.  La notizia si evince da una delle tante liti fra l’arcivescovo di Bari e il priore di S. Nicola. La vicenda è presto detta: tale Innocenzo della Ghezza, che era un domenicano ancora suddiacono, aveva lasciato il convento ed aveva preso moglie. La curia arcivescovile decise allora di arrestarlo come ad Apostata lassando la religione dominichina de l’Ordine de’ Predicatori pigliando moglie essendo suddiacono ma ancora per suspitt.ne de heresia. Poco dopo l’arcivescovo faceva menare il bando per tutta la città, dicendo che se qualcuno avesse versato una cauzione di 50 once lo avrebbe liberato, fermo restando che non avrebbe dovuto lasciare la città. Pare che fosse il canonico Giovanni Antonio Gliro a versare la cauzione per il giovane frate, che però appena libero scomparve da Bari con la sua donna. Trattandosi di un canonico di S. Nicola ne scoppiò una lite giurisdizionale fra la curia arcivescovile e quella priorale[14].
Forse fu anche per dare una svolta ed uscire da simili situazioni che i maestri generali inviarono come priori frati scelti da loro. Nel 1595 il Procuratore generale fra Vincenzo Asturicense inviava a Bari come priore fra Federico da Brescia[15].
   Se però tutti questi documenti lascerebbero supporre una carenza di vita regolare nel convento di S. Domenico di Bari, va detto che ce ne sono altri che invece danno un’immagine positiva sia della vitalità che della moralità della comunità domenicana di Bari. Ad esempio, sappiamo che le autorità centrali dell’Ordine deliberarono nel 1589 di inserire il convento di Bari fra i pochi conventi di Puglia che potevano ricevere i giovani ad habitum. Trattandosi di un compito particolarmente delicato e di grande responsabilità morale, se ne deve dedurre che le voci giunte a Roma sulla comunità domenicana barese non dovevano essere poi tanto negative. In altri termini, la comunità di S. Domenico di Bari viveva una vita regolare di un discreto livello, altrimenti non avrebbe avuto il compito di decidere sulla vocazione dei giovani.
 
[1] Diploma del 24 novembre 1518 edito da Francesco Lombardi, Historia del Monasterio di S. Scolastica della città di Bari, (1705 circa) a cura di Franco Zippitelli, Bari 1981, p. 45.
[2] Cappelluti 1983, 307 (il riferimento è ad AGOP IV 26, ff. 197r-v).
[3] ABSN, Serie Istrumenti diversi 9/77 del 2 novembre 1521 (che corrisponde al 1520, perché il 1° settembre del 1520 era già scattato il 1521, secondo il computo bizantino).
[4] D’Addosio, Platea bonorum stabilium conventus S.cti Dominici Barensis. Anno D.ni 1767, f. 8. Vedi anche Cassetta 114 (= I, 90), cc. 253v, 290v e 312v), ove sono meglio specificati i dettagli, come i nomi degli eredi.
[5] D’Addosio, cassetta 114, cc. 114, 312.
[6] Ivi, c. 299.
[7] Antonio Beatillo,  Historia di Bari, Napoli 1637, p. 133.
[8] Ivi, cc. 251-253. Istrumento del notaio Bernardino de Tatiis, del 18 ottobre 1545.
[9] AGOP, IV, 29, ff. 127-130. Cappelluti 1983, 260-61.
[10] Originale perduto. Edita in Lombardi 1697, II, 70-71: Reverendis ac venerabilibus in Christo Priori et fratribus monasterii Divi Dominici Baren, devoti nostri dilectis. Bona Dei gratia Regina Poloniae, Magna Dux Lithuaniae, Barique, Princeps Rossani, Russiae, Prussiae, Massoviae etc. Domina.
Reverendi ac venerabiles in Christo devoti nostri dilecti, che dall’Università della città nostra di Bari sia stato levato generalmente a tutti i monasteri l’elemosina che cadauno anno se gli dava , et anch’a voi, dal datio della Giummella, come con la vostra di 3 di gennaro ne significate, certo non potemo dir altro, si non che ne par una cosa strana, et fuori d’ogni ragione, sì perché l’opra e pia com’anch’è stato osservato da molto tempo in qua, ne rincresce ben che da noi non si può astrengere acciò far, che volontieri lo farebbemo per molti degni rispetti, ma a tal che conosciate, che dal canto nostro non si manca far ogni possibile di farvela rihavere, gli scrivemo con una nostra di buona maniera, con esortarla di più, a non cessar dall’incominciato, faccia Dio, che tal nostra ammicion habbia effetto, che non men à noi piacerà, ch’a voi stessi. Di Varsavia il dì XXVIII di marzo del 1531. Bona Regina
[11] Visita di Mons. Orfini, edita da G. Pinto, Ordini del Visitatore Apostolico per la chiesa di Bari, 1568, in “Riforma tridentina in Puglia”, I, Bari 1968, p. 27, 45: 1. Che si facci un tabernaculo più decente con un tabernaculetto et cassettina d’argento con corporale assettato sotto, et a torno per conservar il S.mo Sacramento da renovarsi ogni otto giorni; 2. Che si facci un’ampolla de stagno per conservar l’olio degl’infirmi et se levi quello di vetro, et si conservi in loco decente fora del tabernaculo del S.mo Sacramento, 3. Che se nega provedendo delle cose più necessarie per la Chiesa et Sacrestia, avendo bisogno di molte cose, et si tengano mondi i corporali et calici, 4. Che si rassetti et fermi l’altar di S.ta Maria della Neve, 5. Che l’altar di S.ta Caterina, o si tenghi decentemente ornato, o se levi, 6. Nelli altri altari si provveda de scabelli decenti et altre cose necessarie, 7. Che si provveda secondo il bisogno al tetto, che ha bisogno de reparatione, 8. Che si facciano due confessionali uno per l’homini con tavola e crata intermedia, et l’altro del medesimo modo per le donne in loro cospicuo da ponersi, et che non lassino intrare donne dentro dell’inclaustro o Monastero
[12] Cappelluti 1991, 185.
[13] Ivi.
[14] Privilegi della R. Chiesa di S. Nicola di Bari. Ms (volume di manoscritti originali donatomi da Modesto Palasciano), f. 85. Senza data, ma priore Paolo Oliva 25.X.1575-1591 e arcivescovo Antonio Puteo 1562-1592.
[15] AGOP IV, 48, I, f. 55v