Il Convento nel Trecento

Poi sedette sul trono di Pietro un papa di ferro, Bonifacio VIII. Nonostante la sua grande personalità, anche Bonifacio VIII doveva molto a Carlo II d’Angiò. Per cui, anche se dichiarò subito la nullità degli atti del suo predecessore, non esitò a soddisfare il volere del re di Napoli e a fondare nuovamente la Provincia Regni con bolla del 1° marzo 1295[1]
    Tali sdoppiamenti non furono comunque senza benefici risvolti. Infatti, l’autorità  provincializia era molto più vicina ai conventi. I frati di Bari non dovevano arrivare a Roma o Firenze, ma facevano capo a Napoli. I rapporti cioè con l’autorità centrale erano enormemente facilitati, anche se, non bisogna dimenticarlo, nel medioevo gli interventi a livello locale da parte dei capitoli generali come dei maestri generali erano frequentissimi.
     Nel convento barese, non si è certi di chi fosse il successore di fra Pellegrino da Foggia come priore della comunità. Si sa però che nel 1291 era tale fra Giovanni di Boiano, come afferma esplicitamente il Capitolo di Spoleto[2]. Nel 1292 troviamo come priore fra Giovanni da Lentini, designato in quello stesso capitolo provinciale romano che inviava a Trani come lettore il suddetto Pietro di Andria [3]. Nel 1299 era priore a Bari proprio quel fra Pietro di Andria, primo vicario della provincia, e soprattutto noto discepolo e segretario di S. Tommaso d’Aquino. Non mancano studiosi che hanno attribuito a lui  la stesura di qualche opera attribuita all’angelico Dottore[4]. La data si desume dal fatto che nel 1299 Carlo II procedette ad una importante donazione al priore e comunità dei Domenicani, devolvendo ad essi alcuni beni che a Bari appartenevano alla Curia regia. In un documento di cinque anni dopo (1304), ricordando quella donazione, il re dice di averla fatta al tempo e su richiesta del priore Pietro di Andria:
     Carlo II etc. ad Enrico de Sugio di Capua, milite giustiziere di Terra di Bari, al giudice e al notaio preposto agli atti disposti dalla Curia, suoi fedeli. Nella scorsa seconda indizione abbiamo scritto ai nostri ufficiali di Puglia ricordando che al convento dei frati predicatori di Bari, dietro richiesta del priore di allora Pietro di Andria abbiamo concesso che lo stesso convento dovesse entrare in possesso di certi beni che la nostra Curia possiede in Bari[5].
      La donazione del 16 febbraio 1299 aveva lo scopo di accelerare i tempi della costruzione del convento annesso alla chiesa dei Santi Simone e Giuda. Con il relativo diploma Carlo II d’Angiò donò infatti ai frati i beni di Enrico de Agno, definito “traditore”, allo scopo di facilitare i lavori in corso per la costruzione del convento:
 
    Carlo II, etc. ad Enrico de Arvilla, maestro portulano e procuratore della Puglia suo fedele la sua grazia e buona volontà. Nel mentre dirigiamo gli occhi della mente al progresso delle chiese di Dio, e mentre le ampliamo favorendole con favori e benefici, eleviamo la dignità regia e ci procuriamo la misericordia di Dio. Dato che verso il sacro ordine del beato Domenico confessore di Cristo abbiamo uno speciale affetto di venerazione ci adoperiamo affinché mediante l’elargizione dei beni temporali si possano incrementare i suffragi dell’osservanza regolare del suo ordine come il culto delle cose spirituali. Per questo motivo per spontanea liberalità abbiamo dato disposizione di devolvere a beneficio dei reverendi frati, il priore e i frati dell’ordine dei predicatori di Bari per aiutarli a completare la chiesa che ad onore di Dio e del suo Confessore da tempo hanno avviato, tutti i beni che il fu Enrico de Agno aveva insieme ai fratelli in Bari e nelle vicinanze i quali a causa del suo manifesto tradimento sono tornati alla nostra curia. […]  Dato a Napoli per i maestri razionali il giorno 16 febbraio della dodicesima indizione. [6]
     Ma la donazione del 1299 non ebbe effetti concreti in quanto Enrico di Arvilla era sovraccarico di impegni e Nicola Malerba, cui affidò la questione non si mostrò all’altezza di risolvere i problemi. Come si è detto, i beni donati ai frati domenicani erano in comune fra Enrico de Agno e i suoi fratelli, i quali non essendo anch’essi traditori mantenevano quelle proprietà. Come è noto, le proprietà in comune sono difficili da gestire e da renderle disponibili. Per cui né i delegati del portulano né i frati riuscirono a venirne a capo. Il re decise di intervenire nuovamente.
 
    Ci siamo resi conto che i lavori di costruzione non procedono, per cui abbiamo deciso che i beni della Curia li doniamo alla Chiesa di San Nicola, revocando la donazione di tali beni alla curia secondo il volere  e il consenso dello stesso frate, ordinando al contempo di versare una tantum venti once d’oro al peso generale  per la costruzione della chiesa dei frati predicatori, con la condizione che al momento in cui versate la somma ai religiosi, cioè al priore provinciale e a detto fra Pietro, si impegnino per iscritto che tale somma verrà usata esclusivamente per la costruzione della chiesa e per nessun altro scopo[7].
 
Nella pergamena in questione, che menziona altri interventi regi (riassumendoli) si parla sempre del provinciale e di fra Pietro. E’ chiaro che è sempre Pietro di Andria, ed è ugualmente chiaro che non è il priore di Bari in quell’anno. Si può quindi supporre che sia stato incaricato a seguire la vicenda o dal re in persona o dal provinciale.
 Come si può notare, il re annetteva una grande importanza ai lavori in corso, ed era attento a specificare che questa non era una donazione che potesse avere altre destinazioni. I frati dovevano usare quel denaro esclusivamente per portare a termine la costruzione del convento. Con ogni probabilità Carlo II, dando 20 once in contanti, era davvero desideroso di vedere l’opera a buon punto. D’altra parte, donando alla Basilica di San Nicola buona parte degli stessi beni già dati ai frati, era sicuro che l’energico tesoriere Pietro de Angeriaco avrebbe saputo trattare con più successo con i fratelli del defunto traditore Enrico de Agno.
    
    Nel 1309 era il priore fra Giovanni di Acquaviva a dare nuovo impulso ai lavori, anche perché le famiglie aristocratiche baresi cominciavano a scegliere la loro chiesa come luogo di sepoltura (nel 1308 vi era stato sepolto anche il nobile molfettese  Roberto Passaro)[8]. Questo priore, particolarmente ligio al voto di povertà, decise di alienare anche i restanti beni della donazione del 1299 che non erano stati donati alla basilica di San Nicola. Fra Giovanni di Acquaviva riunì i frati in capitolo e comunitariamente si prese la decisione di venderli al miglior offerente.
 
Dato che il mandato regio era chiaro al riguardo, che cioè i suddetti beni erano stati donati dal re per le opere di completamento della fabbrica della chiesa che a Bari gli stessi frati avevano cominciato a costruire, e che non si riusciva a portare a termine la costruzione della chiesa cominciata anche con i redditi di tali beni, i suddetti priore e frati, riuniti in capitolo e discussa la cosa ccon molta diligenza, considerando tra l’altro che secondo la regola di San Domenico non è lecito avere delle proprietà (iuxta regulam sancti Dominici possessiones habere non licet) e per utilizzare tutto il denaro ricavato da quei beni secondo l’intenzione esposta dal re nel suo mandato, cioè esclusivamente per la costruzione della chiesa, in quanto non facendo così non si sarebbe mai completata, tanto più che il priore e i frati non avevano alcuna facoltà a decidere diversamente. Una volta stabilito ciò il priore e i frati per vari giorni previsti dalla legge fecero menare il bando affinché si facesse avanti chi volesse comprare gli uliveti, essendo pronti a venderli al migliore offerente.
 
    Ancora una volta fu la Basilica di san Nicola ad accorrere in aiuto dei domenicani. La migliore offerta venne infatti dal procuratore del tesoriere di S. Nicola che offrì quaranta once d’oro. Il contratto fu ben presto stipulato, firmandosi l’intera comunità: Giovanni di Acquaviva (priore), i frati Petracca di Monopoli, Matteo di Venosa, Riccardo da Brindisi, Nicola de Iannino da Brindisi, Giuliano di Monopoli, Nicola da Brindisi, Pietro di Gioia, Giovanni di Canneto e Florio di Monopoli[9]. Naturalmente con una simile somma i lavori ripresero con maggior lena. Altri lavori di rifiniture forse fecero i priori successivi, come ad esempio fra Giorgio da Brindisi nel 1318, Matteo di Barletta nel 1325, fra Matteo di Potenza nel 1334, fra Tommaso di Potenza nel 1345[10].
     Probabilmente nella zona del coro, a ricordo di colui che aveva resa possibile la costruzione del convento (e al quale giustamente viene dato il titolo di “fondatore”), fu apposto lo stemma angioino. Cosa che fu immortalata quando fu necessario rifare l’abside e si correva il rischio che tale testimonianza venisse cancellata. Nel 1794 fu, infatti, apposta questa epigrafe ancora esistente e che si trova sul primo pilastro entrando, subito a sinistra:
D.O.M.
STEMMA PRINCIPUM ANDEGAVENSIUM
A CAROLO II FUNDATORE ANTIQUAE
HUIUS SACRAE AEDIS ABSIDI COMMIS
SUM REGII HUIUS CONVENTUS PATRES
TEMPLO MAGNIFICENTIUS RENOVATO
HEIC MEMORIAE HONORISQUE CAUSSA
CONSULTO REPOSITUM VOLVERE
  1. D.  MDCCLXXXXIV
 
    Naturalmente i frati non si limitarono a costruire il convento, ma continuarono ad impegnarsi nella predicazione che era la loro naturale vocazione. A livello documentario però ci sono pervenuti quasi soltanto casi di compravendite o di inquisizione. Quanto a questi ultimi è opportuno ricordare che nei primi decenni del XIV secolo (documenti tra il 1309 e il 1324) molto attivo fu l’inquisitore fra Matteo di Putignano, il quale doveva essere investito di grande autorità se poteva permettersi di dare “avvertimenti” ad altri uomini di grande personalità, come il priore di S. Nicola, cardinal Guglielmo Longo, ed il tesoriere Pietro de Angeriaco. Anche se non sembra che egli appartenesse al convento di Bari, il tono dei documenti lo fanno sembrare di casa. Il processo riguardava alcuni ebrei che, per meglio dare credito alla loro conversione, avevano fatto ricche donazioni alla Basilica di S. Nicola. Ma fra Matteo di Putignano era convinto che si trattasse di un espediente. La questione, a parte gli interessi legati alla confisca dei beni, riguardava la sincerità della conversione “de pravitate Iudayca in Orthodoxae fidei claritatem et veritatem Catholicae fidei”. Al termine dell’inchiesta l’inquisitore domenicano fece condannare per eresia i suddetti ebrei benefattori della Basilica [11].
    Un momento particolare visse la città quando i domenicani di Bari nel 1325, obbedendo al papa Giovanni XXII, promulgarono la scomunica contro l’imperatore Ludovico il Bavaro. Mentre tutti gli altri priori pugliesi annunciarono la scomunica dai pulpiti delle loro chiese, il priore di Bari, fra Matteo di Barletta, preferì che la cosa avesse più risonanza e, d’accordo con i canonici, fece leggere pubblicamente dal pulpito della Basilica la suddetta scomunica. Era stato fra Nicola de Lilla, priore di Barletta e vicario del Provinciale per la Puglia, ad inviargli le lettere di scomunica sia contro i figli di Matteo Visconti che contro lo stesso imperatore Ludovico il Bavaro (per la sua politica antipapale e la protezione accordata agli adepti dei movimenti ereticali)[12].
     La seconda metà del Trecento è dominata dalla figura di fra Salvo (talvolta detto Salvio) da Bari, che negli anni sessanta del secolo rianimava la popolazione barese con un tipo di predicazione che, evitando discorsi teorici e ricorrendo ai più pratici esempi e miracoli dei Santi, ridava speranze nell’affrontare le difficoltà della vita. Infatti, sia il Fontana che l’Altamura lo ricordano per i suoi Sermones de tempore et de sanctis[13]. Ma il suo nome è legato anche al curioso episodio che lo vide eletto vescovo di Avellino, confermato dal confratello Ugo de Rupto, metropolita di Benevento. Il papa intervenne nel 1364 richiamando il metropolita alla nuova disciplina ecclesiastica, che riservava al pontefice la nomina dei vescovi. Il papa però non annullò la nomina episcopale di fra Salvo, ma scrisse all’arcivescovo di Bari incaricandolo di dare al domenicano la sede di minore importanza di Salpi, che poi fra Salvo resse fino alla morte avvenuta nel 1374[14].
 
[1] Per la bolla di Bonifacio VIII Attendentes ab olim del 1° marzo 1295, vedi Fontana, De Romana Provincia Ordinis Praedicatorum, Roma 1670,  p. 10; Teodoro Valle, Compendio, pp. 76-77.
[2] Kaeppeli 1941, 99 (curam Conv. Barensis committimus fr. Iohanni de Boiano, lectori).
[3] Kaeppeli 1941, 106-107
[4] Nato a Andria verso il 1235 e formatosi forse nel convento di Trani, nel 1258 fra Pietro raggiunse Parigi ove strinse amicizia con S. Tommaso, che lo volle come uno dei suoi segretari. Al processo di canonizzazione dell’Aquinate il logoteta Bartolomeo da Capua affermò: Se a lui si attribuiscono alcune opere, non le scrisse o notò egli, ma le raccolsero altri da lui, mentre insegnava o predicava. Fra questi furono fra Pietro di Andria e uno studente parigino. Lo scrittore coevo Nicola Trivet scrive item lecturam super  Matheum incompleta, quam partim idem frater  Petrus, partim saecularis quidam recollegit eius studio delectatus. Nel 1273 ebbe l’incarico di trascrivere le prediche quaresimali che S. Tommaso stava tenendo a Napoli.  Probabilmente era qualcosa di più di un trascrittore, se nel 1414 nel suo catalogo degli scrittori domenicani fra Ludovico di Valladolid afferma che fra Pietro scripsit librum de perfectione vitae spiritualis, item super Evangelium b. Matthei. Su di lui vedi Gerardo Cappelluti, Fra Pietro di Andria e i segretari di S. Tommaso, Memorie Domenicane, Nuova serie, 1975, pp. 151-165; H. C. Scheeben, Die Tabulae Ludwigs von Valladolid im Chor der Predigerbrüder von St Jakob in Paris, AFP 1930, pp. 223-263 (in particolare 261).
[5] CDB XIII, doc. 140, p. 217. Redatto a Bari e datato 30 novembre 1305 (= 1304, essendo a Bari il 1 settembre già scattato il 1305, mentre a Napoli e nel resto dell’Italia era ancora il 1304)
[6] L’originale della donazione è perduto, ma  si è interamente conservato il diploma in cui il re, nell’ordinarne l’esecuzione al portulano Enrico di Arvilla, ne riferisce i particolari, senza però fare il nome di Pietro d’Andria (che doveva certamente trovarsi nell’originale a lui diretto). Il diploma ad Enrico di Arvilla si è conservato perché interamente transuntato in un documento del 1309 conservato nell’Archivio della Basilica di San Nicola. Cfr.CDB XVI, doc. 1, 4-5. Il doc. del 13 aprile 1309 è transuntato in questo del 27 giugno 1309.
[7] CDB XIII, doc. 140, p. 218.
[8] Cfr. F. Lombardi, Notitie istoriche della città e dei vescovi di Molfetta, Napoli 1703, pp. 42-43.
[9] CDB XVI doc. 1 (27 giugno 1309), pp. 3-8.
[10] Cioffari 1986, 75-77.
[11] CDB XVI, doc. 11 (del 24 novembre 1310), pp. 22-24.
[12] Testo in Angela Frascadore, La scomunica e la scrittura, Sismel, Firenze 1999, p. 69.
[13] SOP I, p. 674.
[14] CDB XXVIII, doc. 40, p. 112.