Carlo d'Angiò e l'epoca d'oro della Basilica
Con l’avvento del dominio angioino (1266) la Basilica si avviava alla sua epoca d’oro. Colui che più d’ogni altro elevò il suo prestigio e la sua ricchezza fu il sovrano angioino Carlo II lo Zoppo (1285-1309). La sua generosità fu particolarmente viva allorché, catturato e condannato a morte in Sicilia, la notte invocò S. Nicola e all’alba venne a sapere che la condanna era stata annullata[1]. Quando rientrò a Napoli, cominciò ad inviare doni. Alla Basilica concesse tre feudi (Rutigliano, Sannicandro e Grumo), donò 23 codici liturgici (dei quali ne restano 8) per le celebrazioni secondo il rito parigino e numerose reliquie.
Carlo II si preoccupò anche di dare un nuovo assetto giuridico alla Basilica. Approfittando del fatto che il papa Bonifacio VIII gli era grato per averlo sostenuto al momento dell’elezione papale, chiese ed ottenne che il re potesse intervenire direttamente anche negli aspetti religiosi della chiesa. Fu una specie di Legatia apostolica di fine duecento. Il re, allo scopo di incrementare il decoro della chiesa, poteva annettere ad essa altre chiese, come avvenne di fatto col celebre monastero di Ognissanti e con la chiesa di S. Gregorio. Addirittura, nel 1304, Carlo II d’Angiò decise di mettere mano ad una nuova costituzione ecclesiastica[2] che avrebbe dovuto guidare la vita interna del clero della Basilica. Grazie agli stretti rapporti con i papi, scrisse così la costituzione fondamentale della chiesa, stabilendo il numero (42) e il tenore di vita dei canonici.
Dal punto di vista architettonico sotto di lui si ebbero due delle più rinomate sepolture: quelle dei due cancellieri baresi Roberto Chiurlia e Sparano da Bari. Data la proibizione di seppellire in chiesa, questi ottennero dei posti privilegiati, molto vicini all’entrata in chiesa, il primo presso il Portale dei leoni, il secondo presso il Portale della parete meridionale.
Sotto Carlo II si svolse una notevole attività pittorica, della quale però non ci è giunto altro se non l’affresco della Crocifissione nell’abside della cappella di S. Martino. E’ un affresco molto bello che rivela come gli artisti pugliesi si sforzassero di coniugare l’esperienza bizantina con la contemporanea rivelazione di Giotto in toscana. L’artista è Giovanni di Taranto, che vi lavorò nel 1304. Autore e data ci sono noti da una lettera che il pittore inviò al re di Napoli, in cui raccontava di un’aggressione subìta mentre rientrava a Taranto dopo aver affrescato la Basilica di S. Nicola a Bari. Lettera che si giustifica con quanto detto sullo status giuridico della Basilica come cappella palatina.
Ma la vera svolta architettonica si ebbe sotto il suo successore Roberto il Saggio, allorché gli arconi esterni furono murati all’esterno e sfondati dalla parte interna, creando così dei vani lungo le navate. Questi spazi erano destinati all’edificazione delle cappelle gentilizie, onde nel XIV secolo l’interno della Basilica cambiò radicalmente aspetto. Le pareti laterali perdettero il ritmo monotono e piatto per lasciare spazio a tutta una serie di cappelle riccamente ornate. Ovviamente l’abbellimento interno andò a discapito dell’architettura esterna che dalla snellezza del ritmo degli arconi passò alla monotonia di pareti prevalentemente piatte.
Fu proprio in questo momento magico di grandi trasformazioni che giunsero a Bari i doni degli zar di Serbia. Vi sono elementi che fanno pensare a doni già dagli inizi del Duecento, ma il primo rigorosamente documentato è il grande altare d’argento di Stefano Uroš II Milutin (1282-1321)[3], il fondatore della grande Serbia. Il suo altare andò a ricoprire la tomba del Santo, svolgendo tale funzione fino al 1684 allorché, in tono col barocco predominante, anche l’altare fu fuso e ricesellato a Napoli in stile barocco.
Il secondo dono (di quelli pervenutici) è la grande icona di Uroš III Decianski, collocata a volte nel tesoro a volte dietro la tomba del Santo. L’icona è stata recentemente restaurata, rivelando un mondo affascinante di dipinti diversi. I pittori successivi non cancellavano le immagini esistenti, ma vi dipingevano sopra o a fianco. Di conseguenza l’icona potrebbe essere presa a modello ideale di che cos’è un restauro e di quante ricchezze pittoriche si celano nella stessa grande icona.
Il terzo dono è la cessione alla Basilica dei tributi che la città di Dubrovnik (Ragusa) doveva a Stefano Dušan, come attesta la pergamena con sigillo d’oro,datata Skopje 1346. [4]. Successivamente non vi furono altri doni, anche perché dopo l’epica battaglia di Kosovo Polje il centro della Serbia si spostò dal Kosovo verso il nord, dove ora è Belgrado.
Le tracce relative a questo periodo sono molte. Fra di esse si segnalano:
1. Epigrafe di Roberto da Bari (1275 c.)
2. Sarcofago di Sparano da Bari (+1294)
3. 30 pergamene di Carlo II d’Angiò. Tre sigilli d’oro. Archivio.
4. Affreschi di Giovanni di Taranto (1304).
5. Doni di Carlo II d’Angiò (Tesoro di S. Nicola): Reliquiario a
cattedrale gotica. Reliquiario di S. Sebastiano. Croce Angioina.
Candelieri di cristallo di rocca.
6. Doni di Carlo II d’Angiò. 8 (dei 23) Codici liturgici. Archivio.
7. Sigillo del capitolo nel Trecento. Archivio.
8. Doni degli Zar di Serbia. Icona di Uroš III Decianski (1327).
9. Pergamena di Stefano Dušan (1346) con sigillo d’oro. Archivio.
Carlo II si preoccupò anche di dare un nuovo assetto giuridico alla Basilica. Approfittando del fatto che il papa Bonifacio VIII gli era grato per averlo sostenuto al momento dell’elezione papale, chiese ed ottenne che il re potesse intervenire direttamente anche negli aspetti religiosi della chiesa. Fu una specie di Legatia apostolica di fine duecento. Il re, allo scopo di incrementare il decoro della chiesa, poteva annettere ad essa altre chiese, come avvenne di fatto col celebre monastero di Ognissanti e con la chiesa di S. Gregorio. Addirittura, nel 1304, Carlo II d’Angiò decise di mettere mano ad una nuova costituzione ecclesiastica[2] che avrebbe dovuto guidare la vita interna del clero della Basilica. Grazie agli stretti rapporti con i papi, scrisse così la costituzione fondamentale della chiesa, stabilendo il numero (42) e il tenore di vita dei canonici.
Dal punto di vista architettonico sotto di lui si ebbero due delle più rinomate sepolture: quelle dei due cancellieri baresi Roberto Chiurlia e Sparano da Bari. Data la proibizione di seppellire in chiesa, questi ottennero dei posti privilegiati, molto vicini all’entrata in chiesa, il primo presso il Portale dei leoni, il secondo presso il Portale della parete meridionale.
Sotto Carlo II si svolse una notevole attività pittorica, della quale però non ci è giunto altro se non l’affresco della Crocifissione nell’abside della cappella di S. Martino. E’ un affresco molto bello che rivela come gli artisti pugliesi si sforzassero di coniugare l’esperienza bizantina con la contemporanea rivelazione di Giotto in toscana. L’artista è Giovanni di Taranto, che vi lavorò nel 1304. Autore e data ci sono noti da una lettera che il pittore inviò al re di Napoli, in cui raccontava di un’aggressione subìta mentre rientrava a Taranto dopo aver affrescato la Basilica di S. Nicola a Bari. Lettera che si giustifica con quanto detto sullo status giuridico della Basilica come cappella palatina.
Ma la vera svolta architettonica si ebbe sotto il suo successore Roberto il Saggio, allorché gli arconi esterni furono murati all’esterno e sfondati dalla parte interna, creando così dei vani lungo le navate. Questi spazi erano destinati all’edificazione delle cappelle gentilizie, onde nel XIV secolo l’interno della Basilica cambiò radicalmente aspetto. Le pareti laterali perdettero il ritmo monotono e piatto per lasciare spazio a tutta una serie di cappelle riccamente ornate. Ovviamente l’abbellimento interno andò a discapito dell’architettura esterna che dalla snellezza del ritmo degli arconi passò alla monotonia di pareti prevalentemente piatte.
Fu proprio in questo momento magico di grandi trasformazioni che giunsero a Bari i doni degli zar di Serbia. Vi sono elementi che fanno pensare a doni già dagli inizi del Duecento, ma il primo rigorosamente documentato è il grande altare d’argento di Stefano Uroš II Milutin (1282-1321)[3], il fondatore della grande Serbia. Il suo altare andò a ricoprire la tomba del Santo, svolgendo tale funzione fino al 1684 allorché, in tono col barocco predominante, anche l’altare fu fuso e ricesellato a Napoli in stile barocco.
Il secondo dono (di quelli pervenutici) è la grande icona di Uroš III Decianski, collocata a volte nel tesoro a volte dietro la tomba del Santo. L’icona è stata recentemente restaurata, rivelando un mondo affascinante di dipinti diversi. I pittori successivi non cancellavano le immagini esistenti, ma vi dipingevano sopra o a fianco. Di conseguenza l’icona potrebbe essere presa a modello ideale di che cos’è un restauro e di quante ricchezze pittoriche si celano nella stessa grande icona.
Il terzo dono è la cessione alla Basilica dei tributi che la città di Dubrovnik (Ragusa) doveva a Stefano Dušan, come attesta la pergamena con sigillo d’oro,datata Skopje 1346. [4]. Successivamente non vi furono altri doni, anche perché dopo l’epica battaglia di Kosovo Polje il centro della Serbia si spostò dal Kosovo verso il nord, dove ora è Belgrado.
Le tracce relative a questo periodo sono molte. Fra di esse si segnalano:
1. Epigrafe di Roberto da Bari (1275 c.)
2. Sarcofago di Sparano da Bari (+1294)
3. 30 pergamene di Carlo II d’Angiò. Tre sigilli d’oro. Archivio.
4. Affreschi di Giovanni di Taranto (1304).
5. Doni di Carlo II d’Angiò (Tesoro di S. Nicola): Reliquiario a
cattedrale gotica. Reliquiario di S. Sebastiano. Croce Angioina.
Candelieri di cristallo di rocca.
6. Doni di Carlo II d’Angiò. 8 (dei 23) Codici liturgici. Archivio.
7. Sigillo del capitolo nel Trecento. Archivio.
8. Doni degli Zar di Serbia. Icona di Uroš III Decianski (1327).
9. Pergamena di Stefano Dušan (1346) con sigillo d’oro. Archivio.
[1] Cfr. V. Massilla, Commentarii super consuetudinibus preclarae civitatis Bari, Patavii 1550, p. 16v (§ 14)..
[2] CDB XIII, doc. 133, pp. 196-201.
[3] A. Beatillo, Historia di S. Nicolò, Napoli 1620, p. 958.
[4] Archivio Basilica di S. Nicola, Per. Angioino, L 22; edita in CDB XVIII, pp. 43-44.