La difesa della fede al concilio di Nicea (325)
Alla morte di Massimino (313) Costantino e Licinio, ormai unici imperatori, si incontrarono a Milano, dove promulgarono il famoso editto di tolleranza. Di conseguenza i cristiani si dedicarono a ricostruire gli edifici sacri e a ricostituire le comunità riportando un certo ordine. Più tardi Costantino sconfisse Licinio, il quale nei suoi territori riprese una certa persecuzione contro i cristiani, che a suo avviso erano sostenitori di Costantino. Quando nel 324 Costantino, eliminando Licinio, restò unico imperatore, decise di trasferire la capitale dalla vecchia Roma alla nuova Roma, che localizzato nell’antica cittadina di Bisanzio prese il nome di Costantinopoli.
Ma se l’impero era ormai unificato e messo sotto la protezione del Dio dei cristiani, ecco che a scuoterlo furono proprio i dissensi interni alla cristianità, i quali toccando un punto centrale della fede (la divinità o meno di Gesù Cristo) rischiavano di creare il caos sociale.
Una certa subordinazione del Figlio rispetto al Padre c'era sempre stata nella Chiesa, ma verso il 317 Ario, prete di Alessandria, la espresse in termini netti e del tutto lesivi della divinità del Figlio. Egli partiva dal concetto che Dio, per essere tale, doveva essere non generato, e dato che il Figlio è generato dal Padre, non poteva essere Dio allo stesso livello del Padre. Del resto, egli aggiungeva, S. Paolo stesso lo chiama «primogenito di tutta la creazione», quindi deve essere visto come l'intermediario fra Dio e il creato.
La controversia raggiunse gli strati popolari, in quanto quasi ovunque ci si era abituati a vedere il Cristo come Dio. Essa mise a nudo anche le latenti divergenze che esistevano da un luogo all'altro. Per esempio in Asia Minore (e quindi in Licia) e in Siria molto forte era l'istanza monoteistica, per cui pur adusi a adorare la Trinità, si era molto reticenti nell'impiego del termine proposto da Atanasio di Alessandria di «consustanziale» per precisare il rapporto tra il Padre e il Figlio.
Benché si trattasse di un tema dogmatico o religioso l’imperatore comprese che il tutto rischiava di trasformarsi in una pericolosa discordia all’interno dell’impero, al punto forse da renderlo ingovernabile. Di conseguenza, decise di prendere l'iniziativa di convocare i vescovi di tutto l'impero affinché questi problemi fossero affrontati in modo universale e universalmente risolti. Mentre quindi procedeva alla costruzione di una nuova capitale dell'impero nella città di Bisanzio, dandole un aspetto eminentemente cristiano, in contrapposizione a Roma, ancora fortemente pagana, nel 325 inviò una lettera di convocazione a tutti i vescovi dell'impero. Data l’importanza della città di Mira nella Licia di allora, non c’è motivo di dubitare che anche Nicola la ricevesse, come del resto il suo collega Eudemo di Patara, e forse i vescovi delle altre «metropoli» licie, cioè Olimpo, Tlos, Xanthos e Pinara. Così, verso il 15 maggio del 325, imbarcandosi probabilmente ad Andriake (più impervia era infatti la via interna attraverso la Cibiratide e la Frigia) giunse in un porto della Propontide e quindi raggiunse Nicea, importante città della Bitinia.
Come avrebbe notato lo storico Niceforo Kallistos Xanthopoulos, spettacolare dovette essere il viaggio di tanti presuli, molti dei quali ancora con i segni della persecuzione, da tutti i luoghi dell'impero ed anche oltre i confini di esso, verso questa cittadina non lontana da Costantinopoli.
Vari scrittori, con una certa frettolosità, hanno affermato che il nome di Nicola non si trova nelle liste dei partecipanti a quel concilio. Le cose non stanno proprio così, in quanto molte liste riportano anche il nome di Nicola, mentre altre non lo riportano. Le liste che non lo riportano sono considerate le più antiche, vale a dire la lista dei 221 nomi, il Rimaneggiamento alessandrino dei 225 nomi, il Corpus canonum di Antiochia anteriore al 381, liste latine I, II, III, Λ IV, Λ V, lista siriaca del 501, lista copta di 162 nomi. Va detto subito, però, a questo riguardo, che gli archetipi di queste liste non esistono più e che l'antichità stabilita da Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz fa parte del mondo delle supposizioni. Basti pensare allo studio polemico dell'Honigmann (Byzantion, XIV) per «dimostrare» contro di essi e contro Schwartz l'importanza e priorità di A V rispetto alle liste latine I, II, III, e Λ IV e alla lista copta. Su un terreno sicuro quanto ad antichità ci troviamo invece con la lista siriaca (del 501) e quella di Teodoro il Lettore (del 515 c.).
Tutta la critica che nega la partecipazione di San Nicola a questo concilio è basata su un pregiudizio derivante da un errore di Gustav Anrich, il grande editore dei testi narrativi greci relativi a San Nicola (Hagios Nikolaos, Berlin Leipzig 1917). Questo studioso affermò nel 1917 che il nome di San Nicola fu inserito (interpolato) nelle liste dei Padri di Nicea da copisti del X secolo a partire dai sinassari, dalle Vite ed encomi posteriori al 900 dC. Curiosamente, anche gli studiosi delle liste antiche, che sapevano e sanno benissimo che il nome di Nicola non si trova soltanto nella lista di Teodoro (515 c dC), del resto ritenuta autentica anche su San Nicola da un pezzo da novanta come Eduard Schwartz, bensì anche nella lista greca del 713, edita dal Beneševič. Un dato che da solo mette ko la tesi dell’Anrich.
A questo punto però è fondamentale un’osservazione: le liste sono una cosa, i partecipanti un’altra. In altri termini, sarebbe un errore grossolano identificare i nomi delle liste con gli effettivi partecipanti al concilio. Le liste infatti riflettono l’area geografica o gli interessi culturali della sua provenienza. Dando dunque per buono l’ordine di priorità cronologica stabilito da Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz, come pure la «correzione» dell'Honigmann, trattasi pur sempre di una priorità filologica (di famiglia di liste) e non storica (numero e persone partecipanti al concilio). Del resto, gli stessi Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz, nonostante la loro tesi sulle liste più antiche, nelle cartine geografiche a conclusione del loro testo non escludono Nicola di Mira, ma a fianco a Mira pongono un punto interrogativo. Una prudenza resa necessaria da varie considerazioni. Basterebbe citare questa: la Licia non era una provincia di minore importanza rispetto alla Frigia, alla Pisidia, alla Pamfilia o alla Caria, eppure nell’ordine queste province circostanti sono rappresentate da 8, 11, 7 e 5 vescovi. La Licia invece uno solo (Eudemo di Patara). Basterebbe solo questo rilievo per capire tutta la fragilità dell’Index Restitutus.
Le testimonianze storiche coeve a favore di 300 vescovi son troppe e non permettono in alcun modo di avallare il numero di circa 220 stabilito dall'Index restitutus e acriticamente ripetuto. Ad esempio, Eusebio (Vita Constantini, III, 8) parla di oltre 250 padri, Socrate (Historia Ecclesiastica, 1, 8) di oltre 300, Eustazio di Antiochia (De Salomonis proverbiis, VIII, 22) di 270, Costantino Imperatore (Lettera agli Alessandrini, in Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 9) di più di 300; Atanasio (Epistola ad Monacos, cap. 66) di oltre 300; e nella Epistola de synodis, 43 di circa 300; Giulio I papa (in Atanasio, Apologia, 23 e 25) di circa 300; Lucifero di Cagliari (De regibus apostaticis, 11) di circa 300. Per il numero 318 sono: Atanasio, Ad Afros, 2; Ad Jovianum imperatorem, in Teodoreto, Historia Ecclesiastica, IV, 3; S. Girolamo, Chronicon, ad a. 2338; Hilarius, Contra Constantium; Rufinus, Historia Ecclesiastica, X, 1; Epifanio, Contra Haereses, II, 69; Sozomeno, Historia Ecclesiastica, VI, 11; Ambrogio, De fide ad Gratianum, 1, prologo 5; Evagrio, Historia Ecclesiastica, III, 31.
Ora, pur volendo interpretare simbolicamente il numero 318, è del tutto ingiustificato allontanarsi dal 300. Vedi anche Honigmann, La liste originale, p. 71. Che le liste da cui si è formato l'Index restitutus siano assolutamente inadeguate è dimostrato in modo evidente dal caso di S. Pafnuzio e S. Spiridione. Questi santi, molto celebri al tempo del concilio di Nicea, e giustamente messi in rilievo da tutti gli storici (cfr. Rufino, Historia Ecclesiastica, X, 4; Socrate, Historia Ecclesiastica, 1, 11 e Sozomeno, Historia Ecclesiastica, 1, 23), non si trovano nelle liste che gli autori dell'Index restitutus consideravano più antiche, e che per la Licia riportano solo Eudemo di Patara. Questi santi si ritrovano invece proprio in Teodoro il Lettore e nella lista greca dei 318 padri. Per cui non si può non concludere per la maggiore attendibilità di Teodoro sulle altre liste.
Durante il concilio furono affrontete varie questioni, come ad esempio quella della data della Pasqua, tuttavia il tema principale fu il riconoscimento della consustanzialità del Figlio col Padre.
Sul piano degli usi ecclesiastici interessante è l'intervento di S. Pafnuzio, uno dei Santi più famosi del tempo che, come S. Nicola, non compare in quelle che sono considerate le liste più antiche dei firmatari del concilio. Narra lo storico Sozomeno:
Premuroso di riformare la vita di coloro che erano impegnati per le chiese, il sinodo varò delle leggi chiamate «canoni». Mentre deliberavano queste cose, alcuni erano convinti che fosse bene promulgare una legge secondo la quale vescovi, sacerdoti, diaconi e suddiaconi non avrebbero dovuto avere rapporti sessuali con la moglie che avevano sposato prima di essere ordinati. Ma Pafnuzio, il confessore, si alzò e si oppose a questa proposta. Disse che il matrimonio era degno d'onore e casto, e che la convivenza con la propria moglie era castità, e consigliò i membri del sinodo di non approvare una tale legge, poiché sarebbe stato oneroso osservarla, e poteva divenire occasione di incontinenza a loro e alle loro mogli. Ed egli ricordò loro che, secondo l'antica tradizione della chiesa, coloro che erano celibi al momento di essere ordinati rimanevano celibi, mentre quelli che erano sposati non dovevano separarsi dalla moglie.
Pafnuzio stesso non era sposato. Quindi la sua testimonianza colpì i padri per la saggezza. Di Nicola non sappiamo se fosse sposato, né vi sono elementi nelle leggende agiografiche che permettano di risolvere la questione in un senso o nell'altro. Tra i molti vescovi sposati, il più celebre era forse S. Spiridione, che era di umili origini. Probabilmente però Nicola non dovette prendere una posizione intransigente come quella di Atanasio, in caso contrario quest’ultimo lo avrebbe menzionato nelle sue opere.
Sono infine da considerarsi come pie leggende gli episodi tradizionalmente attribuiti a Nicola in occasione del concilio di Nicea, quello del mattone e quello dello schiaffo ad Ario.
Per quanto riguarda il primo, il Beatillo (Historia di S. Niccolò, Napoli 1620, p. 290) immagina il Santo che, alle parole ironiche di alcuni filosofi, avanza verso uno di essi e preso dal pavimento con le sue mani un mattone, dìssegli ad alta voce, in modo che dagli astanti potea esser udito: Dimmi un poco, o filosofo, perché ti pare impossibile nel Creatore, quello che a suo modo si trova anco nella creatura? Certo, questo c'hò nelle mani, è un solo mattone, e pure in esso sono tre cose distinte fuoco, acqua e terra. Caso meraviglioso. A pena finì di ciò dire, quando a vista di quanti stavano lì presenti, uscì dalle mani del santo, e fuggì verso alto una piccola fiamma, caddero al pavimento alcune gocciole di acqua, e la terra nelle stesse mani, restò secca e disfatta». Un pò meno convinto, anche il Putignani (Istoria di S. Nicolò, pp. 161-162) riporta questo episodio, precisando in nota che «questo miracolo da' Greci odierni vien attribuito a S. Spiridione».
Il primo a parlare dello schiaffo sembra sia stato Pietro de Natalibus nel suo Catalogus sanctorum et gestorum eorum ex diversis voluminibus collectus, Lugduni 1508 (scritto neI XIV secolo). Al folio VII scrive: Fertur beatum Nicolaum jam senem nicaeno concilio interfuisse et quemdam arrianum zelo fidei in maxillam percussisse ob idque a concilio mitra et pallio privatum extitisse; propter quod ut plurimum sine mitra dipingitur, sed dum aliquando missam Beatae Virginis, cuius erat devotus, in pontificalibus celebraret et privationem mitrae et pallii defleret quasi zelo nimio fidei ablata: ecce, cunctis videntibus, duo angeli eidem astiterunt, quorum unus mitram, alius pallium sibi divinitus restituerunt, et ex tunc insignis reassumpsit sibi caelitus restituta». (Cfr. Anrich, 1, p. 459).
L’episodio riportato da Pietro de Natalibus potrebbe essere il risultato di una “materializzazione” di un passo di Andrea di Creta. Così, ad esempio, il Putignani (Istoria di S. Niccolò, p. 163) riteneva che la leggenda sarebbe nata da una forzatura di interpretazione del passo di Andrea di Creta che diceva: Atque hoc pacto contra armatam phalangem, cum fidei gladio, ultricem elevans dexteram, Arii sectam contentiosam una cum Sabellii synagoga funditus profligasti» (cap. 5). Il passo ovviamente (essendoci anche Sabellio) va inteso metaforicamente. Ciò nonostante l’episodio fu accolto sia in oriente da Giovanni Damasceno Studita che in occidente dal Beatillo nella sua Historia di S. Nicolò, p. 293: «si sentì il nostro S. Nicolò accendere il petto di tanto zelo, che non potendo più tolerare, né pur d'udir con l'orecchie somiglianti indegnità, si alzò di repente dalla sua sedia, e andò nel mezo di quella veneranda corona di tanti Santi, levò con empito in alto la destra, e diè schiaffo tale al perverso bestemmiatore, che tutto il conquassò, e poco meno, che il fece cadere a terra».
Ma leggenda chiama leggenda. Lo stesso Beatillo (Historia di S. Niccolò, pp. 295-98), dopo aver ricordato come fu carcerato Nicolò per ordine de' Padri del Concilio, e Christo Salvator nostro con la sua Madre miracolosamente ne lo fecero liberare, aggiunge che un «patriarca Greco, c'havea la sua chiesa ne' paesi de' Ruteni», visitando la Basilica di Bari nel 1597 e vedendo un quadro di S. Nicola, narrò che «nelle greche historie» della sua chiesa si diceva che quando Nicola fu messo in carcere ebbe bruciata la barba e che questa gli crebbe appena all'uscita ebbe celebrata la prima messa.
Anche il Laroche (Vie de S. Nicolas, pp. 88-91) dà come storico l'episodio dello schiaffo, la carcerazione, la liberazione da parte di Cristo e della Madonna. Il Voronov (Sviatitel' Nikolaj, in ŽMP, 1961, n. 6) non crede allo schiaffo, ma ritiene addirittura di tradizione ecclesiastica la carcerazione e la liberazione. A sostegno della sua tesi ricorda che dei viaggiatori russi che nel 1849-50 visitarono Nicea, sulla base della tradizione locale, poterono visitare la «prigione di S. Nicola taumaturgo» nella torre presso le «porte costantinopolitane» (Cfr. A.N. Murav’ev, Pis'ma s Vostoka v 1849-1850 gg., parte I, pp. 106-107, Sanktpeterburg 1851, oltre a «Christianskoe Ctenie» del 1863, parte II, maggio).
Ma se l’impero era ormai unificato e messo sotto la protezione del Dio dei cristiani, ecco che a scuoterlo furono proprio i dissensi interni alla cristianità, i quali toccando un punto centrale della fede (la divinità o meno di Gesù Cristo) rischiavano di creare il caos sociale.
Una certa subordinazione del Figlio rispetto al Padre c'era sempre stata nella Chiesa, ma verso il 317 Ario, prete di Alessandria, la espresse in termini netti e del tutto lesivi della divinità del Figlio. Egli partiva dal concetto che Dio, per essere tale, doveva essere non generato, e dato che il Figlio è generato dal Padre, non poteva essere Dio allo stesso livello del Padre. Del resto, egli aggiungeva, S. Paolo stesso lo chiama «primogenito di tutta la creazione», quindi deve essere visto come l'intermediario fra Dio e il creato.
La controversia raggiunse gli strati popolari, in quanto quasi ovunque ci si era abituati a vedere il Cristo come Dio. Essa mise a nudo anche le latenti divergenze che esistevano da un luogo all'altro. Per esempio in Asia Minore (e quindi in Licia) e in Siria molto forte era l'istanza monoteistica, per cui pur adusi a adorare la Trinità, si era molto reticenti nell'impiego del termine proposto da Atanasio di Alessandria di «consustanziale» per precisare il rapporto tra il Padre e il Figlio.
Benché si trattasse di un tema dogmatico o religioso l’imperatore comprese che il tutto rischiava di trasformarsi in una pericolosa discordia all’interno dell’impero, al punto forse da renderlo ingovernabile. Di conseguenza, decise di prendere l'iniziativa di convocare i vescovi di tutto l'impero affinché questi problemi fossero affrontati in modo universale e universalmente risolti. Mentre quindi procedeva alla costruzione di una nuova capitale dell'impero nella città di Bisanzio, dandole un aspetto eminentemente cristiano, in contrapposizione a Roma, ancora fortemente pagana, nel 325 inviò una lettera di convocazione a tutti i vescovi dell'impero. Data l’importanza della città di Mira nella Licia di allora, non c’è motivo di dubitare che anche Nicola la ricevesse, come del resto il suo collega Eudemo di Patara, e forse i vescovi delle altre «metropoli» licie, cioè Olimpo, Tlos, Xanthos e Pinara. Così, verso il 15 maggio del 325, imbarcandosi probabilmente ad Andriake (più impervia era infatti la via interna attraverso la Cibiratide e la Frigia) giunse in un porto della Propontide e quindi raggiunse Nicea, importante città della Bitinia.
Come avrebbe notato lo storico Niceforo Kallistos Xanthopoulos, spettacolare dovette essere il viaggio di tanti presuli, molti dei quali ancora con i segni della persecuzione, da tutti i luoghi dell'impero ed anche oltre i confini di esso, verso questa cittadina non lontana da Costantinopoli.
Vari scrittori, con una certa frettolosità, hanno affermato che il nome di Nicola non si trova nelle liste dei partecipanti a quel concilio. Le cose non stanno proprio così, in quanto molte liste riportano anche il nome di Nicola, mentre altre non lo riportano. Le liste che non lo riportano sono considerate le più antiche, vale a dire la lista dei 221 nomi, il Rimaneggiamento alessandrino dei 225 nomi, il Corpus canonum di Antiochia anteriore al 381, liste latine I, II, III, Λ IV, Λ V, lista siriaca del 501, lista copta di 162 nomi. Va detto subito, però, a questo riguardo, che gli archetipi di queste liste non esistono più e che l'antichità stabilita da Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz fa parte del mondo delle supposizioni. Basti pensare allo studio polemico dell'Honigmann (Byzantion, XIV) per «dimostrare» contro di essi e contro Schwartz l'importanza e priorità di A V rispetto alle liste latine I, II, III, e Λ IV e alla lista copta. Su un terreno sicuro quanto ad antichità ci troviamo invece con la lista siriaca (del 501) e quella di Teodoro il Lettore (del 515 c.).
Tutta la critica che nega la partecipazione di San Nicola a questo concilio è basata su un pregiudizio derivante da un errore di Gustav Anrich, il grande editore dei testi narrativi greci relativi a San Nicola (Hagios Nikolaos, Berlin Leipzig 1917). Questo studioso affermò nel 1917 che il nome di San Nicola fu inserito (interpolato) nelle liste dei Padri di Nicea da copisti del X secolo a partire dai sinassari, dalle Vite ed encomi posteriori al 900 dC. Curiosamente, anche gli studiosi delle liste antiche, che sapevano e sanno benissimo che il nome di Nicola non si trova soltanto nella lista di Teodoro (515 c dC), del resto ritenuta autentica anche su San Nicola da un pezzo da novanta come Eduard Schwartz, bensì anche nella lista greca del 713, edita dal Beneševič. Un dato che da solo mette ko la tesi dell’Anrich.
A questo punto però è fondamentale un’osservazione: le liste sono una cosa, i partecipanti un’altra. In altri termini, sarebbe un errore grossolano identificare i nomi delle liste con gli effettivi partecipanti al concilio. Le liste infatti riflettono l’area geografica o gli interessi culturali della sua provenienza. Dando dunque per buono l’ordine di priorità cronologica stabilito da Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz, come pure la «correzione» dell'Honigmann, trattasi pur sempre di una priorità filologica (di famiglia di liste) e non storica (numero e persone partecipanti al concilio). Del resto, gli stessi Gelzer, Hilgenfeld e Cuntz, nonostante la loro tesi sulle liste più antiche, nelle cartine geografiche a conclusione del loro testo non escludono Nicola di Mira, ma a fianco a Mira pongono un punto interrogativo. Una prudenza resa necessaria da varie considerazioni. Basterebbe citare questa: la Licia non era una provincia di minore importanza rispetto alla Frigia, alla Pisidia, alla Pamfilia o alla Caria, eppure nell’ordine queste province circostanti sono rappresentate da 8, 11, 7 e 5 vescovi. La Licia invece uno solo (Eudemo di Patara). Basterebbe solo questo rilievo per capire tutta la fragilità dell’Index Restitutus.
Le testimonianze storiche coeve a favore di 300 vescovi son troppe e non permettono in alcun modo di avallare il numero di circa 220 stabilito dall'Index restitutus e acriticamente ripetuto. Ad esempio, Eusebio (Vita Constantini, III, 8) parla di oltre 250 padri, Socrate (Historia Ecclesiastica, 1, 8) di oltre 300, Eustazio di Antiochia (De Salomonis proverbiis, VIII, 22) di 270, Costantino Imperatore (Lettera agli Alessandrini, in Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 9) di più di 300; Atanasio (Epistola ad Monacos, cap. 66) di oltre 300; e nella Epistola de synodis, 43 di circa 300; Giulio I papa (in Atanasio, Apologia, 23 e 25) di circa 300; Lucifero di Cagliari (De regibus apostaticis, 11) di circa 300. Per il numero 318 sono: Atanasio, Ad Afros, 2; Ad Jovianum imperatorem, in Teodoreto, Historia Ecclesiastica, IV, 3; S. Girolamo, Chronicon, ad a. 2338; Hilarius, Contra Constantium; Rufinus, Historia Ecclesiastica, X, 1; Epifanio, Contra Haereses, II, 69; Sozomeno, Historia Ecclesiastica, VI, 11; Ambrogio, De fide ad Gratianum, 1, prologo 5; Evagrio, Historia Ecclesiastica, III, 31.
Ora, pur volendo interpretare simbolicamente il numero 318, è del tutto ingiustificato allontanarsi dal 300. Vedi anche Honigmann, La liste originale, p. 71. Che le liste da cui si è formato l'Index restitutus siano assolutamente inadeguate è dimostrato in modo evidente dal caso di S. Pafnuzio e S. Spiridione. Questi santi, molto celebri al tempo del concilio di Nicea, e giustamente messi in rilievo da tutti gli storici (cfr. Rufino, Historia Ecclesiastica, X, 4; Socrate, Historia Ecclesiastica, 1, 11 e Sozomeno, Historia Ecclesiastica, 1, 23), non si trovano nelle liste che gli autori dell'Index restitutus consideravano più antiche, e che per la Licia riportano solo Eudemo di Patara. Questi santi si ritrovano invece proprio in Teodoro il Lettore e nella lista greca dei 318 padri. Per cui non si può non concludere per la maggiore attendibilità di Teodoro sulle altre liste.
Durante il concilio furono affrontete varie questioni, come ad esempio quella della data della Pasqua, tuttavia il tema principale fu il riconoscimento della consustanzialità del Figlio col Padre.
Sul piano degli usi ecclesiastici interessante è l'intervento di S. Pafnuzio, uno dei Santi più famosi del tempo che, come S. Nicola, non compare in quelle che sono considerate le liste più antiche dei firmatari del concilio. Narra lo storico Sozomeno:
Premuroso di riformare la vita di coloro che erano impegnati per le chiese, il sinodo varò delle leggi chiamate «canoni». Mentre deliberavano queste cose, alcuni erano convinti che fosse bene promulgare una legge secondo la quale vescovi, sacerdoti, diaconi e suddiaconi non avrebbero dovuto avere rapporti sessuali con la moglie che avevano sposato prima di essere ordinati. Ma Pafnuzio, il confessore, si alzò e si oppose a questa proposta. Disse che il matrimonio era degno d'onore e casto, e che la convivenza con la propria moglie era castità, e consigliò i membri del sinodo di non approvare una tale legge, poiché sarebbe stato oneroso osservarla, e poteva divenire occasione di incontinenza a loro e alle loro mogli. Ed egli ricordò loro che, secondo l'antica tradizione della chiesa, coloro che erano celibi al momento di essere ordinati rimanevano celibi, mentre quelli che erano sposati non dovevano separarsi dalla moglie.
Pafnuzio stesso non era sposato. Quindi la sua testimonianza colpì i padri per la saggezza. Di Nicola non sappiamo se fosse sposato, né vi sono elementi nelle leggende agiografiche che permettano di risolvere la questione in un senso o nell'altro. Tra i molti vescovi sposati, il più celebre era forse S. Spiridione, che era di umili origini. Probabilmente però Nicola non dovette prendere una posizione intransigente come quella di Atanasio, in caso contrario quest’ultimo lo avrebbe menzionato nelle sue opere.
Sono infine da considerarsi come pie leggende gli episodi tradizionalmente attribuiti a Nicola in occasione del concilio di Nicea, quello del mattone e quello dello schiaffo ad Ario.
Per quanto riguarda il primo, il Beatillo (Historia di S. Niccolò, Napoli 1620, p. 290) immagina il Santo che, alle parole ironiche di alcuni filosofi, avanza verso uno di essi e preso dal pavimento con le sue mani un mattone, dìssegli ad alta voce, in modo che dagli astanti potea esser udito: Dimmi un poco, o filosofo, perché ti pare impossibile nel Creatore, quello che a suo modo si trova anco nella creatura? Certo, questo c'hò nelle mani, è un solo mattone, e pure in esso sono tre cose distinte fuoco, acqua e terra. Caso meraviglioso. A pena finì di ciò dire, quando a vista di quanti stavano lì presenti, uscì dalle mani del santo, e fuggì verso alto una piccola fiamma, caddero al pavimento alcune gocciole di acqua, e la terra nelle stesse mani, restò secca e disfatta». Un pò meno convinto, anche il Putignani (Istoria di S. Nicolò, pp. 161-162) riporta questo episodio, precisando in nota che «questo miracolo da' Greci odierni vien attribuito a S. Spiridione».
Il primo a parlare dello schiaffo sembra sia stato Pietro de Natalibus nel suo Catalogus sanctorum et gestorum eorum ex diversis voluminibus collectus, Lugduni 1508 (scritto neI XIV secolo). Al folio VII scrive: Fertur beatum Nicolaum jam senem nicaeno concilio interfuisse et quemdam arrianum zelo fidei in maxillam percussisse ob idque a concilio mitra et pallio privatum extitisse; propter quod ut plurimum sine mitra dipingitur, sed dum aliquando missam Beatae Virginis, cuius erat devotus, in pontificalibus celebraret et privationem mitrae et pallii defleret quasi zelo nimio fidei ablata: ecce, cunctis videntibus, duo angeli eidem astiterunt, quorum unus mitram, alius pallium sibi divinitus restituerunt, et ex tunc insignis reassumpsit sibi caelitus restituta». (Cfr. Anrich, 1, p. 459).
L’episodio riportato da Pietro de Natalibus potrebbe essere il risultato di una “materializzazione” di un passo di Andrea di Creta. Così, ad esempio, il Putignani (Istoria di S. Niccolò, p. 163) riteneva che la leggenda sarebbe nata da una forzatura di interpretazione del passo di Andrea di Creta che diceva: Atque hoc pacto contra armatam phalangem, cum fidei gladio, ultricem elevans dexteram, Arii sectam contentiosam una cum Sabellii synagoga funditus profligasti» (cap. 5). Il passo ovviamente (essendoci anche Sabellio) va inteso metaforicamente. Ciò nonostante l’episodio fu accolto sia in oriente da Giovanni Damasceno Studita che in occidente dal Beatillo nella sua Historia di S. Nicolò, p. 293: «si sentì il nostro S. Nicolò accendere il petto di tanto zelo, che non potendo più tolerare, né pur d'udir con l'orecchie somiglianti indegnità, si alzò di repente dalla sua sedia, e andò nel mezo di quella veneranda corona di tanti Santi, levò con empito in alto la destra, e diè schiaffo tale al perverso bestemmiatore, che tutto il conquassò, e poco meno, che il fece cadere a terra».
Ma leggenda chiama leggenda. Lo stesso Beatillo (Historia di S. Niccolò, pp. 295-98), dopo aver ricordato come fu carcerato Nicolò per ordine de' Padri del Concilio, e Christo Salvator nostro con la sua Madre miracolosamente ne lo fecero liberare, aggiunge che un «patriarca Greco, c'havea la sua chiesa ne' paesi de' Ruteni», visitando la Basilica di Bari nel 1597 e vedendo un quadro di S. Nicola, narrò che «nelle greche historie» della sua chiesa si diceva che quando Nicola fu messo in carcere ebbe bruciata la barba e che questa gli crebbe appena all'uscita ebbe celebrata la prima messa.
Anche il Laroche (Vie de S. Nicolas, pp. 88-91) dà come storico l'episodio dello schiaffo, la carcerazione, la liberazione da parte di Cristo e della Madonna. Il Voronov (Sviatitel' Nikolaj, in ŽMP, 1961, n. 6) non crede allo schiaffo, ma ritiene addirittura di tradizione ecclesiastica la carcerazione e la liberazione. A sostegno della sua tesi ricorda che dei viaggiatori russi che nel 1849-50 visitarono Nicea, sulla base della tradizione locale, poterono visitare la «prigione di S. Nicola taumaturgo» nella torre presso le «porte costantinopolitane» (Cfr. A.N. Murav’ev, Pis'ma s Vostoka v 1849-1850 gg., parte I, pp. 106-107, Sanktpeterburg 1851, oltre a «Christianskoe Ctenie» del 1863, parte II, maggio).
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